Il dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo
Le difficoltà economiche e sociali
Le difficoltà economiche e sociali Il dopoguerra fu un periodo di difficoltà economiche dovute alla riconversione produttiva da un’economia di guerra a un’economia di pace. La crisi ebbe il suo culmine nel 1921 a causa del fallimento di grandi imprese come l’Ilva e l’Ansaldo, provocando il crollo di importanti istituti bancari aumentando l’inflazione e la disoccupazione, causata anche dalla smobilitazione: gli uomini chiamati alle armi dall’inizio del conflitto si ritrovavano ora a occupare ruoli inferiori o addirittura senza lavoro anche a causa della mancata ripartizione delle terre incolte. La sfiducia nel governo era caratterizzata da contrapposte spinte autoritarie e antidemocratiche da un lato, e socialiste e rivoluzionarie dall’altro. La crisi d’identità sociale tendeva a manifestarsi in uno sfogo di nazionalismo.
Nuovi partiti e movimenti politici
Con la crisi dei vecchi partiti ci fu un’ascesa di quelli nuovi. Il partito popolare italiano fondato da don Luigi Sturzo puntava su una radicale riforma agraria che doveva riscuotere l’interesse dei ceti rurali, considerati un baluardo contro la diffusione del socialismo. Si proponeva inoltre l’adozione del sistema elettorale proporzionale e una maggiore autonomia locale e regionale. Questi principi favorirono l’aggregazione di più persone appartenenti a classi sociali diverse (interclassimo). Il partito di Sturzo ebbe una forte penetrazione nelle campagne, però non incontrarono il favore dei liberali che giudicavano il loro programma troppo avanzato e li accusavano di bolscevismo bianco. Nel partito socialista prevalse sempre più la corrente rivoluzionaria o massimalista, guidata da Giacinto Menotti Serrati e avversa a ogni collaborazione con lo stato borghese. I riformisti erano invece guidati da Filippo Turati e non perdevano occasione per sottolineare che il partito non avrebbe dovuto rinunciare all’uso degli strumenti che il sistema democratico poteva offrire. Una terza corrente, legata ad Amadeo Bordiga e al giornale torinese “L’Ordine Nuovo”, ebbe tra i suoi esponenti Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. L’Ordine Nuovo sollecitava la formazione di un partito rivoluzionario sul modello di quello realizzato da Lenin in Russia: un’avanguardia operaia delegata a organizzare e guidare la lotta armata attraverso i consigli di fabbrica simili ai soviet russi. Le organizzazioni sindacali del periodo erano la Confederazione generale del lavoro, controllata dai socialisti riformisti, e la Confederazione italiana dei lavoratori, di ispirazione cattolica. Della confusione seppe approfittarne Benito Mussolini che, espulso dal Partito socialista, fondò il quotidiano “Il Popolo d’Italia”. Egli era riuscito a raccogliere intorno a sé alcuni simpatizzanti con l’appoggio dei quali aveva fondato i Fasci di combattimento. Il programma di San Sepolcro si caratterizzava per un forte nazionalismo ma prevedeva l’instaurazione di una repubblica con ampie autonomie regionali e comunali, il suffragio universale esteso anche alle donne, l’abolizione del Senato, l’eliminazione dei titoli nobiliari, della polizia politica e della coscrizione obbligatoria. Prevedeva inoltre il pagamento dei debiti dello stato da parte delle classi più abbienti, la terra ai contadini, la partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, la concessione di industrie e servizi pubblici a organizzazioni operaie, nonché la riduzione dell’orario di lavoro. Era però già possibile cogliere gli aspetti fondamentali del primo fascismo: il nazionalismo, l’esaltazione dell’azione individuale e della violenza, l’ostilità sia verso le classi abbienti sia verso i socialisti, e dall’antiparlamentarismo.
La crisi del liberalismo
L’Italia dovette far fronte anche a un senso di frustrazione e di delusione riguardante l’esito della guerra. Il paese non era riuscito neppure a ottenere tutti gli ampliamenti territoriali previsti dal patto di Londra poiché il presidente americano Wilson era deciso a difendere il principio di nazionalità. Anche Francia e Inghilterra si opposero, e le colonie tedesche furono spartite tra le grandi potenze. Il governo Orlando venne sostituito da un altro ministero liberale, retto da Francesco Saverio Nitti che fece evacuare dalle truppe italiane Fiume, la quale venne però occupata da D’Annunzio che instaurò un governo provvisorio (reggenza del Carnaro). Le elezioni politiche generali del 1919 finirono a vantaggio dei socialisti e dei cattolici. Nitti si rese conto dell’impossibilità di una collaborazione con socialisti e cattolici, perciò si dimette facendo tornare Giolitti. Anche lui si trovò in gravi difficoltà a causa della crisi liberale e del carattere organico delle agitazioni di massa: i lavoratori chiedevano la riduzione della giornata lavorativa e l’aumento dei salari. Nacquero così scioperi e manifestazioni (biennio rosso, 1919-1920). Gli operai metalmeccanici del Nord riuscirono a ottenere una riduzione dell’orario di lavoro a 48, furono riconosciute le commissioni interne e fu applicata la contrattazione collettiva su scala nazionale. Nel Mezzogiorno i contadini reclamavano la ridistribuzione delle terre con l’occupazione dei terreni incolti. Vennero occupate oltre seicento fabbriche in cui organizzarono produzione e lavoro secondo le forme dell’autogestione e si diffusero in molti stabilimenti i consigli di fabbrica. Con il trattato di Rapallo Fiume veniva dichiarata città libera, ma poiché D’Annunzio si rifiutava di abbandonare la città l’esercito si mosse verso di essa. Infine l’Albania divenne indipendente.
L'ascesa del Fascimo
Mussolini aveva accentuato il suo carattere antisocialista trovando perciò l’appoggio dei ceti possidenti e della grande e media borghesia. Le squadre d’azione (camicia nera) bloccavano con violenza gli scioperi degli operai e dei braccianti, assalivano le cooperative e le leghe operaie, le sedi dei partiti e dei giornali socialisti. Il governo era incapace di bloccare queste violenze e si mostrò indifferente. Nel 1921 nacque il Partito comunista italiano guidato da Antonio Gramsci. Nel frattempo Giolitti indisse nuove elezioni con cui i giolittiani costituirono un’alleanza elettorale con nazionalisti, fascisti e i vecchi democratici radicali e riformisti. Scopo era quello di ridurre l’influenza dei partiti popolari e socialisti. Ciò portò all’ascesa dei fascisti che entrarono in Parlamento con 35 deputati tra cui Mussolini. I fascisti trovarono l’appoggio sia della piccola borghesia sia della grande borghesia agraria e industriale. Con la caduta del ministero Giolitti venne formato un nuovo governo da Bonomi e Facta. Venne creato il Partito nazionale fascista, disponibile a ricorrere alla violenza politica ma iniziò anche a sfruttare i mezzi legali consentiti dai meccanismi parlamentari. L’ascesa del fascismo fu favorita anche dall’incapacità del Partito socialista di opporvisi, finendo con una scissione che formò il Partito socialista unito. Il PSI era ora guidato da Pietro Nenni mentre il segretario del PSU fu Giacomo Matteotti. La marcia su Roma nel 1922 fu un colpo di stato che avrebbe permesso ai fascisti di ottenere il governo. Quando Facta presentò il decreto che proclamava lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele si rifiutò di firmare. Facta si dimise e Mussolini formò un nuovo governo.
Verso la dittatura
Mussolini proponeva un governo di coalizione composto da fascisti, tre liberali, due popolari e due democratici sociali, inoltre dichiarò che le libertà garantite dallo statuto Albertino non sarebbero state toccate, ma continuava ad appoggiare le azioni illegali degli squadristi. Mussolini istituì il Gran consiglio del fascismo destinato a prendere decisioni politiche e quindi a limitare le funzioni parlamentari, e le squadre d’azione si unirono nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Mussolini si era avvicinato alla classe capitalistico-borghese, abolì alcune tasse e stipulò numerosi trattati commerciali. I provvedimenti economici portarono alla riduzione del disavanzo dello stato e un notevole sviluppo dell’industria e dell’agricoltura, tutto a svantaggio delle classi popolari private dei sindacati dei lavoratori. Pur essendo stato anticlericale perseguì una politica di riavvicinamento alla Chiesa cattolica. Pio XI, ostile al socialismo e al comunismo, guardò con favore al fascismo. Nel 1924 indisse nuove elezioni. La legge Acerbo reintroduceva il sistema maggioritario e prevedeva un premio di maggioranza al partito che avesse raccolto più voti. Mussolini era motivato dal clima di violenza che regnava nel paese, l’appoggio di alcuni autorevoli uomini politici e il fatto che gran parte della popolazione poteva essere facilmente convinta dalla propaganda fascista. Egli volle che le operazioni elettorali si svolgessero sotto il segno dell’intimidazione e consentì che suoi incaricati violassero il segreto delle urne e commettessero brogli. L’opposizione chiese l’annullamento delle elezioni, così Matteotti fu rapito e assassinato. Ciò portò alla secessione dell’Aventino, non accolta però dal re che confermò la sua fiducia a Mussolini. Il 1925 Mussolini rivendicò a sé la responsabilità di quanto era accaduto e del delitto di Matteotti, successivamente ebbe inizio il varo di severe restrizioni della libertà di stampa e di riunione dei gruppi avversari, quindi la soppressione delle libertà costituzionali, fino all’instaurazione di una dittatura.
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